Primo Ottobre 1954, primo giorno di scuola, 64 anni fa, Malnate, provincia di Varese, paese di 6000 abitanti. Ci sono una trentina di bambini, maschi, una maestra, Fernanda Buzzi, tipa senza fronzoli, unica concessione basco quasi amaranto un po’ di traverso. Sono sempre in un luogo “familiare”, mio padre è il direttore didattico, mia madre insegna lì. Ma non ho fatto l’asilo, come invece è stato per un bel gruppo di altri. Mi sento isolato, per la prima volta in un ambiente sociale diverso dalla mia famiglia o dal gruppo di bambini delle case popolari, da dove vengo.
Primo Ottobre 1957, quarta elementare. Siamo diventati 45, nonostante un certo numero di bocciati e di abbandoni, l’esame di terza elementare ( allora era così) è stata una corsa a ostacoli che ne ha azzoppati alcuni. E poi sono arrivati molti altri, dal Veneto, dal Ferrarese, dalle Puglie, dalla Calabria e dalla Campania. Sono i sintomi della grande migrazione interna. Io ho i capelli crespi, riccioluti, che mi fanno disperare, così poco uguali agli altri, capelli lisci, gente del posto, nordici. Mio padre è calabrese, sì è il Direttore, ma io sono un terroncello, come molti dei nuovi arrivati e come i “terroni del Nord” del Veneto e di Ferrara. Mi spiace non riuscire a entrare in quella che immagino essere un’appartenenza forte, anche se qualche amico me lo sono fatto. Ma orgogliosamente ho fatto banda, durante l’intervallo, con quelli che vengono da fuori e che sono arrivati da poco. Vantaggio secondario, hanno tra i 12 e i 14 anni, non sanno niente, a scuola forse manco c’erano andati, se non per qualche giorno, anche a Malnate qualche figlio di contadino sparisce regolarmente quando c’è da fare in campagna, però sono grandi e grossi e le danno a tutti.
All’intervallo molti bevono il latte in polvere. Io non so cosa sia – il latte lo prendiamo dalla contadina che lo porta ogni sera – mi sembra una bevanda speciale. Poi rimangono alla “refezione” perché in paese molte madri lavorano negli stabilimenti tessili, specialmente al Braghenti, quello che sveglia tutti ogni mattina con le sue sirene.
Quarta e quinta, un maestro geniale, Ronzio si chiamava, divide la classe secondo le nuove nazioni della Comunità del Carbone e dell’acciaio, io sono della Germania. La squadra più brava vince. Il pomeriggio molti restano a scuola dopo le 16, volontariamente, a fare i cartelloni: la corsa nello spazio, per esempio. Si ritagliano i giornali, si montano testi e foto. Molti, tra i quali io stesso, non hanno nessuna voglia di tornare a casa. Poi c’è anche l’orto, e quelli che magari manco sapevano scrivere però sanno la differenza tra coltivare i cavoli e piantare un geranio. La classe è molto più unita.
Primo Ottobre 1959, la scena cambia, siamo a Varese, le medie non ci sono a Malnate, solo commerciali e industriali. La grande selezione è avvenuta, a dieci anni. Solo quelli delle medie potranno andare all’università, dopo il liceo o le magistrali. Per entrare bisogna fare “l’esame d’ammissione”, dopo il normale e impegnativo esame di quinta. Dei 45 delle elementari alle medie andiamo in 3, i tre più bravi. Non è solo una selezione di ceto, gli altri due sono un figlio di una operaia tessile del paese, rimasta orfana, e il figlio di un’impiegata il cui marito se ne é andato via da casa e dal paese. Alcuni, pur figli di piccoli, ma solidi industriali, fanno i tre anni delle “industriali” – i piccoli padroni hanno più soldi ma vivono come i loro operai e tutti pensano che la prima cosa sia andare a lavorare presto. Diventare “periti industriali”, all’Istituto Tecnico di Varese, dopo i tre anni a Malnate, è già considerato un investimento importante sui ragazzi.
Di recente ho spiegato questo normale corso degli studi a una persona di una ventina d’anni più giovane di me, non voleva crederci. Molte riforme passavano poco dopo che la mia classe d’età aveva finito quell’ordine di scuola. Le nostre scuole erano identiche a quelle che avevano fatto i nostri genitori, come nell’anteguerra. L’esame di terza media era una cosa seria, difficile, e veniva dopo un’altra brutale selezione nei tre anni. Per non parlare di quello di quinta ginnasio, un vero spauracchio, e poi della “prova suprema”, l’esame di maturità. Gran parte delle materie fatte nel triennio, spropositate liste di cose da sapere, per esempio almeno 22 Canti dell’Inferno e del Purgatorio, oltre ovviamente a quelli normali dell’ultimo anno, il Paradiso. Il padre di un mio amico ci accompagnò in una baita di montagna, assistiti da una vecchia contadina. 20 giorni a studiare giorno e notte, ed eravamo tra i 18 sopravvissuti del gruppo iniziale di 35.
In seconda Liceo avevo cominciato a capire qualcosa del mondo, Cesare Revelli insegnava Filosofia e Storia, a libri di testo aboliti, solo appunti e discussioni. Applicava un metodo marxiano per spiegare la storia del passato e del presente. Qualche volta, durante gli scioperi, lui convocava le sue classi e cominciava a spiegare con numeri a volontà, letture per reddito e per classe sociale, investimenti nella scuola in sequenza storica di un secolo, e via e via, i nessi tra la nostra piccola esperienza e il grande mondo e la grande storia. Era anche cattolico e faceva la comunione, oltre ad essere “comunista eretico”, luxembughiano e vicino a Lelio Basso del PSIUP. So che oggi per molti questi sono caratteri cinesi, non se ne sa più nulla. Ma è per dire che la ribellione per me comincia allora, ma per molti aveva un retroterra che ci aveva chiarito che il nostro mondo, e le proclamazioni di adorazioni della Grande Cultura che ascoltavamo da altri professori e dai discorsi ufficiali del Preside e dei suoi incaricati, potevano essere agghindate di meravigliose parole e di perfetta padronanza disciplinare, ma erano “inganni”. Né più, né meno, intendo inganni oggettivi, non volontari, ideologia pura, tanto più penosa quanto più frutto di una dedizione al sapere cieca di fronte alla storia. Intanto Camilo Torres, un prete guerrigliero, moriva combattendo in Colombia, era iniziata la rivoluzione culturale in Cina, i vietcong combattevano la superpotenza americana come fosse davvero “una tigre di carta”. Il mondo era inquieto, molto inquieto, ma era una inquietudine inflazionata di speranze, un odio per la “scuola di classe” che veniva da un eccesso di amore: perché non si poteva far per gli altri, e far meglio ancora, quello che era stato possibile a noi?
A cinquanta anni di distanza dall’anno fatale – per noi, non credo per il mondo – è inevitabile pensare a cosa è successo: sono state smontate molte barriere, tutto è stato facilitato e allargato, l’interesse dei ragazzi è la posta, almeno nei casi migliori, di un lavoro beneficamente “seduttivo”, bisogna rendere la scuola accattivante, la “cultura” digeribile. Alcuni amici, già allora – compreso il mio vecchio professore di Filosofia – scuotevano il capo, facevano notare che era tutto molto approssimativo e, di nuovo, falso. Anzi, l’unica scala sociale “per merito”, la scuola, veniva azzerata, senza dare però un diverso valore alla formazione: ai miei tempi, il figlio del grande padrone della Ignis e di Varese, veniva bocciato, e doveva andare alle scuole private per arrivare alla maturità; adesso i dottori sono un po’ di più – e non ancora abbastanza e molto mal distribuiti – ma il titolo vuol dire poco, la selezione si è spostata direttamente all’ingresso nel mercato del lavoro, il che spesso vuol dire, in Italia, una rete più o meno familistica, oppure casualità pura.
E della cultura critica, che ne è? Lo sprofondo mi pare vertiginoso. La scuola è umiliata in tanti modi, e non certo per sola responsabilità di chi ci lavora dentro, anzi. Insieme a frotte di “tira a campare”, ci sono gruppi di persone capaci di miracoli – in realtà la sperimentazione di questi cinquanta anni non è stata raccolta in nessun modo, lo scollamento tra la produzione di innovazione didattica e formativa e la capacità di tradurla in disegno politico è stato totale.
Bisogna ricominciare da capo, sapendo che non si ricomincia mai da capo. Quanto a me – parlo di me, come spero si sia capito, solo per partire da un esempio che conosco meglio di altri – ancora oggi, ci riprovo, da fuori dall’istituzione, pur avendo insegnato per 47 anni ( già, allora si cominciava a 21 a fare supplenze, il mercato del lavoro era eccezionalmente favorevole per noi ) e pur avendo sperimentato, proprio in Università, alcune forme di un diverso modo di insegnare, che legasse l’esperienza personale ai grandi orizzonti del mondo e della storia culturale. Da tempo proviamo, con un gruppo raccolto attorno a Philo, scuola di pratiche filosofiche, a creare una sorta di scuola per adulti, non disciplinare e fuori da ogni obbiettivo di aggiornamento professionale, una scuola per sondare l’architrave della nostra esistenza, cioè il senso che le abbiamo dato o che abbiamo assimilato inconsapevolmente, ripartendo insieme dall’esperienza biografica e dagli scenari di narrazione e di idee che la influenzano e che la possono guidare, così abbiamo chiamato questa impresa “Mitobiografia”. Roba da sorridere, un gruppetto per una impresa ciclopica. Ma credo che questo, oggi, sia “far politica con altri mezzi” e poi che, in fondo, quel che conta è portare il proprio mattone, senza preoccuparsi troppo di come e dove troverà posto, nel caso che il tempio o la cattedrale venga realmente costruita.