vivere dentro

Qualche giorno fa ho rimesso piede nella Casa Circondariale. Sono un professore di matematica e scienze che dopo un anno d’insegnamento nella scuola serale riprende a operare nei corsi di licenza media e di assolvimento dell’obbligo nella struttura penitenziaria. Ne sto scrivendo perché mi ha colpito il fatto di aver considerato il ritorno all’insegnamento in carcere come un’azione ordinaria, al pari di un insegnante che in modo pressocché automatico ritorna a scuola dopo le vacanze estive o come un qualsiasi burocrate che torna al grigiore del suo ufficio dopo le ferie.
Per di più non sono neppure stato sfiorato dall’idea, così comune per chi entra in carcere come operatore per le prime volte, che in fin dei conti la gente che è rinchiusa lì dentro è gente come noi. Sarà stata l’abitudine a causare il cambiamento positivo nella mia disposizione mentale nei confronti dei reclusi, tanto da sentirmene gratificato e perfettamente a posto con la coscienza, dal momento che sono arrivato a reputare una persona che ha delitto (participio passato preso a prestito da Umberto Eco) al pari di un uomo normale quale io mi ritengo? Evidentemente sì, ma è talmente scontato e così ingannevolmente consolatorio da avvertire in ogni modo un senso d’insoddisfazione.
Per venirne fuori opero pertanto un ragionamento a ritroso, ricercando il motivo della mia frustrazione negli inizi di questa mia particolare attività lavorativa (che definisco tale, non essendo io un volontario). Precisamente risalgo al giorno del mio primo ingresso nella struttura carceraria e a quanto mi ero prefigurato potesse conseguirne, come accade a tutti i miei colleghi. Sarà pericoloso per la mia incolumità? Che cosa posso insegnare a dei delinquenti? Saranno disposti ad ascoltarmi? Con intensità e sfumature diverse tutti ci siamo posti queste domande prima di entrare in carcere o le hanno fatto sorgere in noi le persone con cui viviamo, familiari, parenti, amici, semplici conoscenti.
Come posso anch’io aver ritenuto che le persone recluse siano “altro da noi”? Eppure l’ho pensato, riflettendoci su soltanto adesso, e quasi me ne vergogno se rivolgo la mente ai “poveri cristi” che si trovano lì per aver ceduto di fronte alle necessità del (soprav)vivere. Così mi vien facile rifarmi alle parole di una poderosa pensatrice del nostro tempo qual è Simone Weil, che nell’intenso e penetrante libretto La persona e il sacro, sostiene che “Il pensiero umano non può ammettere la realtà della sventura… lo spettacolo della nuda sventura causa all’anima lo stesso moto di ritrazione che l’approssimarsi della morte causa alla carne.”
Penso altresì a quanto illuminante fosse il concetto di “nuovo potere tecnologico” di cui parlava Michel Foucault in Sorvegliare e punire, dove la nascita della prigione era paragonata al Grande Fratello che è la società stessa. Insieme alle scuole, agli ospedali e alle fabbriche, il “sistema carcerario” fa parte di quell’istituzione sovrana che tutto egemonizza nella moderna società della paura. E noi, volenti o nolenti, ignari o consapevoli, da tale paura veniamo soggiogati.
Ritornerò perciò al mio lavoro nella Casa Circondariale con qualche falla in più nella mia autostima e con la consapevolezza di vivere la mia condizione di ergastolano della vita nel sistema di reclusione rappresentato dalla società stessa in cui vivo, che controlla le mie azioni, condiziona il mio pensiero, plasma il mio intimo sentire.

15 ottobre 2017

Vito Lamola